RACCONTAMI CHE TI RACCONTO...*.*..

buongiorno a tutti!!!..*.*..

ok ok..il titolo di questa pagina non dice molto di quello che voglio fare..ma..sono qui apposta per spiegarvelo..no??..:D..

alloooora..:D..
..da oggi..(o meglio..da oggi e quando riuscirò..)..posterò qualcosa scritto da me..:D..
..alcuni sono Brevi racconti..alti capitoli di storie abbastanza lunghe..che però spero vi possano piacere..:D..

bene..iniziamo?!?..:D..

diamo inizio alle danze!!..:D..

kiss..<3<3<3

                                                                                                                 Jess..<3





GLORIA E IL SUO AMORE PERDUTO

Era sera, ormai.
Gloria, affacciata al balcone, ammirava le stelle. Suo marito, Marcus, non era li con lei.
Le sue preghiere erano rivolte tutte a lui, nella remota speranza che tutto andasse bene, che presto tornasse da lei.
Il freddo pungente tipico di quella stagione iniziò a penetrarle le ossa. Se Marcus fosse stato li con lei, l’avrebbe raggiunta, avvolgendola in un morbido scialle di mille colori fatto da lei, e l’avrebbe stretta a se, affondando il volto tra i suoi morbidi capelli biondi, resi ancora più lucenti dai raggi di luna.
Le lacrime le salirono agli occhi. Un groppo le si formò in gola. Gli mancava da morire il suo amato Marcus.
Si erano conosciuti all’accademia militare. Lei Paracadutista, lui Marina.
Le due discipline di loro non avevano nulla in comune, eppure tra di loro, fin dalla prima volta, era scattato qualcosa, qualcosa di innaturale.
Molte furono le volte in cui si scontrarono per pensieri differenti. C’erano delle volte in cui Gloria sarebbe voluta essere una tiratrice scelta, per farlo tacere una volta per tutte.
Ma alla fine l’amore trionfò.
Erano sposati da circa due anni, e, per entrambi, quelli furono i migliori anni mai vissuti.
Gloria si toccò il ventre prominente, sorridendo. La sera che aveva detto a Marcus di essere incinta, lui l’aveva presa tra le braccia, facendola girare come una trottola, ridendo come matti per tutta la notte.
Due mesi dopo, tutta quell’euforia svanì in un soffio.
Pearl Harbor era in pericolo, e la Marina Militare doveva difenderla, a costo della vita.
A quattro mesi da quel fatidico richiamo, Gloria ancora credeva nel ritorno del marito. Il bimbo che aveva in grembo scalciò, come a voler ammonire la madre.
Sospirando, Gloria tornò in casa e si stese sul letto.
Due ore più tardi, si svegliò di soprassalto. Le sirene strillavano come matte, segno di un imminente attacco aereo.
Presa la borsa con all’interno tutto l’occorrente, scese nello scantinato ed attese.
Distesa su quella brandina instabile, iniziò a piangere. Era stufa di tutto quello che stava succedendo. Era una guerra inutile, e tutti lo sapevano.
Milioni e milioni di valorosi uomini stavano morendo per combattere contro un solo uomo, un uomo egocentrico, con un solo pensiero in testa: purificare il mondo dagli indegni, come se lui sapesse il significato di Puro.
Si addormentò poco dopo, ma non durò per molto. Un presentimento si fece sempre più prepotente nei suoi pensieri.
Quando le sirene smisero di suonare e lei poté tornare in casa, quel presentimento divenne realtà.
Aveva lasciato la radio accesa, prima di scendere.
“ Siamo spiacenti di comunicarvi che la base di Pearl Harbor è stata attaccato. L’attacco, iniziato al tramonto, ha distrutto buona parte della Marina Militare Americana.
Pearl Harbor è perduta, e, con lei, le nostre speranze di vittoria sul Fuhrer”.
Il mondo le crollò addosso. Gloria si accasciò contro il muro, in lacrime. Non avrebbe più rivisto il suo amato Marcus. Suo figlio sarebbe stato orfano di padre.




AMORE IMPOSSIBILE
Bianca era la quinta della fila.
Davanti al lei, immense ciminiere sputavano fuori, dai loro camini, nuvole di cenere nera come la morte, cioè esattamente quello che era.
Un gruppo di soldati, con la svastica appuntata al braccio destro, si fermarono davanti a loro. Le canne dei fucili, al grido di un uomo corpulento, si alzarono all’unisono, contro il gruppo.
Il cuore di Bianca stava per uscire. La paura era l’unico sentimento che provava, in quel momento. Un gruppo di uomini, con indosso un cappotto di buona fattura, si avvicinarono a loro.
La paura scomparve da Bianca, nel momento in cui vide Hulrick, il suo amato. Alto, bello, imponente ed impossibile.
Lo aveva amato dal primo giorno in cui l’aveva incontrato, 15 anni prima, in un parco giochi, intento a costruire un castello maestoso.
Furono inseparabili da quel momento. Ma la guerra non guarda in faccia a nessuno..e non ha un cuore.
Lui tedesco di nascita, lei ebrea. Un legame impossibile, indesiderato, ma troppo potente per essere distrutto. Ci provarono in molti: i genitori di lui, arruolando nell’esercito tedesco; i genitori di lei, allontanandola da Dusseldorf; ma, alla fine, soltanto una stupidissima legge dettata da un uomo cinico e senza cuore, riuscì a separarli.
Ed ora eccoli li, il soldato e la sporca ebrea.
Bianco lo guardò fisso negli occhi, cercando qualcosa di quell’uomo che aveva tanto amato, e che amava ancora; ma non era rimasto più nulla.
Trasalì, quando un colpo partì alla sua destra, e il corpo di un giovane ragazzo si accasciò a terra. Le si affannò il respiro. «Possibile che questa sia la mia fine?»
Quando il fucile si posizionò davanti a lei, Bianca prese un grosso respiro e chiuse gli occhi, in attesa.
Il soldato schiacciò il grilletto, ma il dolore non arrivò. Si sentì buttare a terra, così aprì gli occhi. Hulrick, quasi senza vita, era sopra di lei, e le faceva da scudo. Lui, la guardò, e con un mezzo sorriso sussurrò: “ Non ti avrei mai lasciata morire..piuttosto morirei con te. Ti amo e ti amerò per sempre”.
Un secondo colpo partì da una pistola, diretta al volto di Bianca, ma a lei non importava più nulla. Ora era con il suo amore eterno e nessuno li avrebbe mai più separati.



21 dicembre 2012
Piove.
Con lo sguardo puntato verso l’orizzonte invisibile, i pensieri si accavallano uno sull’altro. Sospirando, chiudo la finestra. Lo sguardo mi cade sul calendario, poco distante da dove mi trovo.
21 dicembre 2012.
Sono circa due mesi che rido e scherzo con i miei amici su questo giorno. Prendere in giro quell’ammasso di pecoroni che credono nella profezia dei Maya è il modo migliore per far passare la serata, tra un bicchiere e l’altro.
Eppure questa mattina, quando mi sono svegliata, un senso di inquietudine si è fatto largo dentro di me. Più e più volte ho cercato di scacciarlo, ma con pessimi risultati.
Quelli che non credono, come me, non hanno cambiato le loro abitudini. Abbiamo continuato a lavorare, ad uscire, a dormire e mangiare, mentre il resto della popolazione si preparava alla cosiddetta Apocalisse.
Noi diciamo di non crederci, eppure ieri sera, dopo il nostro solito aperitivo, ci siamo salutai con più calore del solito.
Siamo tutti degli ipocriti. Diciamo una cosa ma in realtà pensiamo esattamente l’opposto.
Decido di uscire.
Per le strade, la gente sembra terrorizzata. È quasi un anno che sentiamo di catastrofi in tutto il mondo, e la consapevolezza che i Maya ci abbiano visto giusto, attanaglia tutti, ormai.
Pensandoci, però, è assurdo. Perché mai dovrebbe accadere una cosa del genere?
Dopo aver preso un caffè, servito da un uomo visibilmente preoccupato, decido di andare al parco.
Tutti gli uffici sono entrati in ferie prima del previsto, come se passare una giornata in più con i propri cari possa cambiare il corso degli eventi, facendo sentire meglio la gente.
Io non ho nessuno, e, sinceramente, mi sta bene così. Al parco, l’atmosfera è meno tesa che per le strade del centro. Probabilmente la presenza dei bambini, con le loro grida gioiose, allenta la tensione.
Sedendomi su una panchina, mi si stringe il cuore a pensare che quei bambini non avranno mai un’adolescenza, non daranno mai il loro primo bacio, non si sposeranno mai. Eppure, nel profondo, li invidio. Hanno vissuto la loro vita al meglio, e nel periodo migliore in assoluto.
Guardo la torre campanaria della chiesetta di fronte al parco.
Le 14:30.
Mi alzo lentamente, ma ricado sulla panchina. Un urlo agghiacciante fa aumentare il mio battito cardiaco. La terra trema per pochi secondi, poi, il silenzio.
I tordi presenti nel parco, invece di lamentarsi come di loro abitudine, tacciono. Tutta l’umanità tace, di fronte a quello che sta accadendo. È come se la terra si fosse fermata. Le coppie si stringono forte, avvicinando i bambini, spaventati ed in lacrime.
Uno squillo del cellulare mi fa sobbalzare.
<< volevo solo dirti che ti amo da impazzire. Addio>>.
Il mio respiro accelera, le lacrime mi salgono agli occhi. “ Possibile che questa sia la fine?” sussurro tra me. No, non è possibile, è assurdo.
Mi faccio forza e mi alzo, pronta ad affrontarla, questa fine.
Un altro scossone mi fa barcollare.
<<sta arrivando, ci siamo quasi.>>
Poi, improvvisamente, l’auto parlante installato dalla NASA qualche mese prima, gracchiando, dice: “ vi comunichiamo che la fine del mondo è appena passata. Una nuova era ha inizio da questo momento, un  era di prosperità e di gioia”.
Guardandomi intorno, incredula e circospetta, sorrido. Un boato di felicità scoppia tra la comunità li presente.
Senza riflettere, inizio a correre, diretta a casa, ma non per tornare nel mio appartamento.
Come se mi avesse letto nel pensiero, lui è li, ad aspettarmi, davanti al portone, in pantofole. Appena mi vede, mi prende tra le sue braccia, affondando il viso tra i miei capelli.
Ci eravamo sbagliati, tutti quanti, ma, forse, è stato meglio così.






La rosa misteriosa (prima parte)

Uscii dal bar, sorridente. Jonathan mi cinse un fianco con il suo braccio. Io, intrecciai le mie dita alle sue, sospirando.
“ Comunque quel caffe era decisamente disgustoso” commentai.
“ Esagerata. Probabilmente hanno pulito male i filtri della macchina, tutti qui”.
Con una smorfia di disgusto, voltai lo sguardo verso di lui. La sua sicurezza mi aveva sempre colpita. Accorgendosi del mio sguardo su di lui, mi sorride. Stavo per rispondergli, ma, sulla carreggiata opposta, un auto si accosta a noi. Vetri oscurati, di un blu intenso. Il finestrino si abbassa e il sangue mi si gela nelle vene.
Un volto mascherato compare nella mia visuale. La parte superiore del suo viso è coperto da una maschera, che lascia libera la bocca. Mi sorride in modo malefico, sfoggiando una dentatura giallognola e poco curata. Quando abbassa la maschera, quasi svengo.
Quell’essere non ha gli occhi. Davanti a me ci sono soltanto due buchi, dipinti di rosso.
Mi sorreggo a Jonathan che, allarmato, mi guarda. Sbatto gli occhi e la scena scompare.
Torniamo a casa.
Fa freddo, nonostante i caloriferi siano accesi. Levai il cappotto e avrei voluto levarmi anche quella sensazione di angoscia che mi attanaglia l’anima, ma è quasi impossibile.
Cercai di mangiare qualcosa, ma lo stomaco si rifiutava di ricevere cibo.
Non riuscendo a fare nulla, decisi di andare a letto. Jonathan mi raggiunse quasi subito. Mi sentì rabbrividire, così mi strinse a se. Sorridendo, chiudo gli occhi.
Una sensazione di calore pervade il mio volto. Apro gli occhi. La mia stanza è sparita, insieme a Jonathan.
Cercai di alzarmi, ma non ci riuscii. Guardando verso le mie mani, notai, allarmata, che erano legate alla testiera di un letto che non era il mio. Divincolai le gambe, ma presto capii che avevano subito lo stesso trattamento. Solo allora mi ricordai del calore sopra al mio volto. Alzai lo sguardo e vidi una candela a forma di teschio, nera, scintillante, con alcune gocce di cera pendenti verso di me.
Spalancai gli occhi, impaurita; in quell’istante, un ombra comparve sul mio lato destro, avvicinandosi. Era l’essere che avevo visto proprio quella sera. Aveva tra le mani una candela color rosso sangue, ma, non era una candela comune; al posto dello stoppino, aveva un marchio, ben marcato, e, tutto intorno ad esso, c’era dei ricami complicati, uniti a delle roselline.
Quando mi raggiunse, mettendosi al mio fianco, un odore acre di incenso e lavanda invase i miei sensi. Restò per qualche istante li, a girare tra le dita la candela; ad un tratto, mi colpì col suo sguardo vuoto. Quelle due cavità di color rosso mi fecero rabbrividire.
Avvicinò il suo viso al mio.
“ Dolce fanciulla; ingenua… pura…” sussurra, con un tono di voce caldo e sensuale.
“Chi sei?” chiesi, impaurita.
“ Umh… - risponde, avvicinandosi al mio collo – chi sono… posso essere tante cose…”.
La sua voce era sempre più sensuale e i miei sensi iniziarono a vacillare.
“ E cosa sei adesso” chiesi, deglutendo a fatica.
L’essere spostò il viso sull’altro lato del mio collo, portando la mano dietro la mie testa, sulla nuca.
“ La lussuria, il piacere”.
A quelle parole, persi conoscenza.
Mi sollevai dai letto, madida di sudore. Guardandomi a destra ed a sinistra capii di essere nuovamente nella mia stanza. Scesi dal letto ed andai in bagno. Davanti allo specchio, mi spaventai. I miei bellissimi occhi blu erano contornati di nero; la mia massa di capelli ricci, neri, un groviglio unico. Cercai di sistemarli, ma era impossibile.
Sbuffando, aprii l’acqua della doccia ed entrai. Lo scrosciare dell’acqua mi rilassò. Mi cosparsi di sapone e mi risciacquai per bene. Mentre indossavo l’accappatoio, però, qualcosa, sulla mia schiena, attirò la mia attenzione.
Raggiunsi lo specchio della stanza e lanciai un urlo.
Jonathan, ancora nel mondo dei sogni, si svegliò di soprassalto.
“ Cos’è successo? Stai bene, amore?”
Mi ricoprii la schiena e lo guardai. Era uno spettacolo per gli occhi appena sveglio. Gli sorrisi, rassicurante.
“ Niente tesoro, scusami, ho soltanto visto un ragno”. Mi avvicinai e lo baciai.
Appena uscì di casa, tornai davanti allo specchio. Tolsi l’accappatoio e inorridii. Un tatuaggio copriva metà della mia schiena. Era una porzione di rosa, nera, e bruciava da matti.
Sotto ad essa, una serie di parole senza senso completavano l’artefatto: peccato, piacere, vivo, morto.

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